I cordai di Castelponzone
Riportiamo qui (senza le note) il testo di Glauco Sanga, Da «dritti» a proletari, edito in Mondo popolare di Lombardia, 7, Cremona e il suo territorio, a cura di Roberto Leydi e Guido Bertolotti, Silvana Editoriale, Milano 1979, pp. 199-221
1. I cordai
I cordai un tempo lavoravano la canapa mentre oggi lavorano fibre di recupero, i picàai, fili di sisal usati per la legatura dei covoni. Si rende ai contadini, in corda, il 20% del peso dei picàai conferiti, il resto lo si rivende. È un lavoro destinato a morire perché oggi, nelle imballatrici, il sisal è sostituito da fibre di plastica, che non possono essere riutilizzate per far corda.
Un ristretto numero di cordai artigiani è esistito a Castelponzone anche in passato: comperavano la canapa, facevano la corda e poi la vendevano direttamente a Cremona, Brescia, Parma, o nei grossi paesi agricoli (Casalmaggiore, Piadena), non sui mercati, ma a ferramenta, a droghieri, soprattutto a sellai, che poi provvedevano a rivenderla ai contadini delle campagne.
Fino alla seconda guerra mondiale Castelponzone era un grosso centro di produzione della corda, fabbricata a domicilio da operai che lavoravano a cottimo.
Per il periodo tra le due guerre si può documentare, attraverso le testimonianze orali, un’industria della corda decentrata a domicilio. I padroni, proprietari terrieri, erano pochi: Telò, il maggiore, poi due Scaglioni, Pontiggia, Bellingeri, Maderna. Comperavano la canapa in balle a Bologna, Ferrara, Rovigo e la davano al cordaio, che la lavorava (pettinatura, filatura, lucidatura) e riportava al padrone la corda, pagata a cottimo secondo il peso.
La percentuale di calo provocava continui contrasti: mediamente si può calcolare un calo del 10%; canapa particolarmente pulita può dare rese del 95%, mentre la canapa sporca, con molti stecchi (rüvàs), è soggetta a un calo del 15-18%. La determinazione del quantitativo di corda da riportare era sempre fonte di litigi: da una parte i padroni pretendevano più corda di quanta se ne potesse produrre, o comperavano canapa sporca pretendendo la resa della canapa pulita; dall’altra i cordai tendevano a «rubare» qualche chilo di corda per venderla sottobanco (ghe fòom al gòp «gli facciamo il gobbo (l’imbroglio)», dicevano). Una «sottrazione» limitata a 2-3 kg su un quintale era considerata «onesta». I cordai, per raggiungere il peso concordato, bagnavano la corda, ma i padroni lo sapevano ed erano liti continue. Per di più la corda troppo bagnata rischiava di ammuffire in magazzino. Alle continue rimostranze dei padroni, che pretendevano rese sempre più alte, i cordai rispondevano: il calo è questo, se ne volete di più, è acqua!
La canapa veniva data in ragione del numero dei componenti la famiglia: 50, 70, 100 kg. Le famiglie numerose facevano la corda grossa, per la marina, la cui lavorazione richiedeva maggiore forza fisica.
Il rapporto di lavoro era tra il padrone e l’operaio cordaio, ma la lavorazione impegnava tutta la famiglia. Per far la corda, prima della relativa meccanizzazione rappresentata dall’impiego dell’energia elettrica e del «carrettino» per il garbél, occorrevano almeno tre persone: il cordaio per filare, una persona per girare la ruota (menà la róoda) e un’altra per tenere il gancio (garbél). Vi erano poi i lavori preparatorii (pettinatura della canapa) e di rifinitura (lucidatura della corda).
Il lavoro era così suddiviso: l’uomo (il cordaio) faceva i lavori più specializzati e più faticosi, la filatura e la lucidatura. I bambini (pütéi) giravano la ruota e tenevano il garbél. Le donne a volte giravano la ruota, ma per lo più stavano a casa a spinà (pettinare la canapa con lo spinàs), aiutate in parte dagli stessi cordai, oltre che a fare i lavori domestici e a preparare i pasti. Solo nel caso che ci fossero parecchi uomini in casa (ad esempio vari fratelli) le donne non partecipavano alla lavorazione della corda.
Gli orari di lavoro erano pesantissimi. Di norma ci si alzava alle due di mattino per preparare la canapa (pettinatura); alle prime luci dell’alba si andava a filare lungo i sentéer, dove il lavoro durava fino al tramonto. L’orario di lavoro, secondo le stagioni, andava dalle 12 fino alle 18 ore al giorno. L’impiego dei bambini era generalizzato sin dalla più tenera età; a partire anche dai sei anni venivano messi per l’intera giornata (da sole a sole, cioè dall’alba al tramonto) a girare la ruota, in ogni stagione, con il freddo e con il caldo; se erano troppo piccoli, gli si mettevano delle pietre sotto i piedi perché potessero arrivare alla ruota. Era assai frequente che i bambini, costretti a lavorare, non potessero andare a scuola, per cui si registrava una elevata percentuale di analfabetismo in un paese che in passato era stato altamente alfabetizzato.
Il pranzo, di solito una minestra, perché i cordai latte non ne volevano, veniva consumato all’aperto, sul luogo di lavoro, dove veniva portato dalle donne o dalle bambine. Gli altri due pasti della giornata venivano consumati in casa, la cena serale e la colazione del mattino, che consisteva in sardine (in gergo céechi) con cipolle condite con l’aceto (l’olio era troppo caro!) e polenta.
I guadagni dei cordai sono sempre stati molto bassi: la paga verso il 1912-1914 era di due lire al kg; in seguito è stata ribassata dai padroni, che lamentavano le «molte spese» cui dovevano far fronte: fra le due guerre oscillava tra 1,20-1,50 lire al kg. In otto ore di filatura si fanno circa 5 kg di corda, sicché si può calcolare che un cordaio guadagnasse, con il suo lavoro e con quello di tutta la famiglia, circa 7-8 lire al giorno. Era un guadagno poverissimo, che permetteva a mala pena la pura sopravvivenza. Si dice che i cordai e i contadini sono l’üültim merdìin che a fàt el Signùur «l’ultima merdina che ha fatto il Signore», ma il cordaio stava peggio del contadino, perché aveva più o meno lo stesso guadagno ma lavorava il doppio (e perché non produceva direttamente generi alimentari ma doveva comprarseli). Nessun cordaio sotto padrone è riuscito a metter da parte soldi; rarissimi quelli che hanno fatto qualche risparmio, ma poca cosa, e privandosi di tutto: un paio di pantaloni lo si faceva aggiustare dieci volte! Qualche risparmio più consistente era possibile per i cordai artigiani, ma gli operai riuscivano a mala pena a vivere.
La possibilità di lavoro variava secondo la stagione. La filatura, essendo fatta all’aperto, era sospesa in caso di pioggia o di neve, quindi d’inverno la possibilità di lavoro era molto ridotta, limitata alle sole giornate asciutte. Il cordaio nel periodo di cattiva stagione non guadagnava nulla ed era costretto a fare debiti presso i bottegai e a farsi anticipare piccole somme di denaro dal padrone. Il prestito, senza interesse, era a breve o a brevissimo termine. Il cordaio andava la domenica dal padrone e gli chiedeva, poniamo, 20 lire, e il padrone gliene dava 15 o 16, ma gliele tratteneva sulle paghe successive, dopo due settimane, o dopo un mese, o al massimo dopo due mesi. Per questa ragione la rivalutazione della lira («quota 90») del 1926 non ha inciso sui cordai, mentre ha rovinato numerosissimi contadini. I cordai erano quindi costretti a lavorare durissimamente (anche 20 ore al giorno) in primavera e in estate per restituire i prestiti ricevuti in inverno.
Il cordaio doveva anticipare il piccolo capitale iniziale per l’attrezzatura, che era di sua proprietà. Si può valutare il costo complessivo attorno alle 200 lire corrispondenti, a circa 30 giorni di lavoro. L’attrezzo più caro era il masóol, fabbricato dal falegname (marangòon), che però faceva credito; abbiamo poi la róoda, il garbél, le spinàsi; infine i restéi, che stando all’aperto marciscono e vanno cambiati ogni 2-3 anni, e i pàai, che vanno sostituiti tutti gli anni, attrezzi questi due ultimi che potevano essere fatti direttamente dal cordaio.
I cordai pensavano che nemmeno i padroni facessero grossi guadagni: quello del cordaio – dicono – è un mestiere povero, sia per gli operai che per i padroni. Si può valutare, sempre per il periodo tra le due guerre, che i padroni pagassero 1 kg di canapa 1 lira, che dessero per il lavoro 1,20-1,30 lire, e che rivendessero la corda a 4,00-4,50 lire al kg, con un utile stimabile sulle 1,50- 2,00 lire al kg.
Le lamentele sull’operato dei padroni sono tuttora vivissime. La corda, consegnata il lunedì mattina, veniva pagata la domenica successiva, dopo messa, all’ora che più accomodava ai padroni. Capitava di star lì ad aspettare dalle undici alle due per poi sentirsi dire di tornare un altro giorno, e i cordai, che aspettavano i soldi per comprare magari un pezzetto di carne, tornavano a casa e non sapevano cosa mettere in pentola. I padroni lasciavano i cordai senza lavoro con la massima facilità, per pochi giorni come per settimane o mesi. Ad esempio quando andavano a caccia stavano via 15-20 giorni e il lavoro restava sospeso; oppure speculavano sulle variazioni del prezzo della corda e della canapa, rallentando gli acquisti di canapa o la produzione di corda e lasciando i cordai per settimane senza lavoro, nella più nera miseria. Da questo durissimo rapporto con i padroni era nata nei cordai una forte soggezione; se un cordaio stava fumando, all’arrivo del padrone mettevano via la pipa (si racconta che un cordaio si bruciò mettendo in tasca la pipa accesa).
Verso il 1936 ci fu il tentativo di sottrarsi al dominio dei padroni attraverso la costituzione di una cooperativa. All’origine non vi fu una scelta dei cordai, ma il contrasto tra Telò, il maggiore dei padroni, e il segretario politico del partito fascista, che decise, per ritorsione, di fondare una cooperativa di funai, sottraendo gli operai ai padroni. Tutte le famiglie di operai di Castelponzone, una cinquantina, parteciparono (salvo un paio di operai rimasti coi padroni). In cooperativa c’erano 120 operai, la maggior parte di Castello, una ventina di San Martino del Lago e alcuni di Scandolara Ravara. Ogni operaio dovette contribuire con il pagamento di 200 lire, cifra enorme, talché quasi tutti dovettero farsela prestare. Tre commercianti del paese firmarono garanzie per 140.000-150.000 lire. La cooperativa ebbe breve vita (uno o due anni) per l’opposizione dei padroni, e gli investimenti andarono in gran parte perduti. Il contabile e il viaggiatore assunti dalla cooperativa pare rubassero (in paese sono tutti convinti che fossero stati comperati dai padroni). Dopo questa infelice esperienza, i cordai dovettero andare a lavorare a cottimo sotto i vecchi padroni. Castelponzone ha sempre avuto pochissima terra, non più di 1.000 pertiche, e di conseguenza i contadini erano pochi. Su una popolazione di un migliaio di abitanti i cordai rappresentavano l’assoluta maggioranza. Le famiglie di cordai erano grosse, i figli numerosi (da un minimo di quattro fino a dodici): in una strada c’erano 50-60 bambini. Talvolta i figli sposati stavano in famiglia (ma non sempre come nelle famiglie dei contadini); quando uscivano, spesso andavano a sistemarsi presso la famiglia di origine (nella casa vicina o nella stanza vicina), perché la famiglia tendeva a restare unita per lavorare tutti assieme. Di norma comandava il nonno, il pupà, che amministrava i soldi. Il pasto del mezzogiorno, consumato sul luogo di lavoro, era preparato per tutta al famiglia allargata. Tra contadini e cordai ci si imparentava: le figlie dei contadini che sposavano i cordai abbandonavano il lavoro dei campi e aiutavano il marito nella lavorazione della corda.
I cordai vivevano tutti in case di affitto, di proprietà dei padroni della canapa o di altri proprietari terrieri del luogo, in una spaventosa situazione di sovraffollamento. Una famiglia viveva in una stanza, i più fortunati in due. In un appartamento di 3-4 stanze, dove ora abita una famiglia di 5-6 persone, abitano 30-40 persone.
I cordai non avevano terra. Per arrotondare i magri guadagni d’estate, uomini e donne, andavano a mietere il frumento sui campi dei padroni (che erano anche, come abbiamo visto, proprietari terrieri), e tenevano anche il «melicotto» (granoturco) a quinto coi padroni. L’accordo era questo: il padrone metteva la terra, il seme, le bestie e il concime, il cordaio metteva il lavoro e la zappa. Quando il terreno era stato seminato, il padrone chiamava i cordai a lavorarlo: zappare e tagliare le cime, pelare, raccogliere il granoturco, che poi era portato in cascina, scartocciato e quindi trebbiato. Un quinto del raccolto spettava al cordaio e quattro quinti al padrone. In seguito la divisione è diventata più favorevole (1/4 al cordaio e 3/4 al padrone).
I cordai che avevano una famiglia sufficientemente numerosa tenevano anche i bachi da seta in casa. Il seme era comperato a metà col padrone, che metteva anche la foglia; i graticci per i bachi e il lavoro erano messi dal cordaio; il raccolto era diviso a metà. Certo era un allevamento delicato: se i bachi morivano si perdeva tutto.
Le donne contribuivano ad aumentare le entrate con piccoli servizi domestici, oppure andando a mondà li galéti, mondare i bozzoli prima di mandarli allo stabilimento, in paese ( la «stagione» durava 20-30 giorni). Pochissime andavano a fare le mondine.
I bambini non impiegati nella lavorazione della corda andavano a fare il gàargio (i più piccoli erano detti gargìin) nelle cascine, presso i contadini. Andavano con il fagottino con gli effetti personali, mangiavano e dormivano in cascina e aiutavano nei lavori agricoli. Se appena era possibile si preferiva tenere i bambini a casa.
Il lavoro del cordaio, a memoria d’uomo, è sempre stato in prevalenza stabile. Ci si ricorda di alcuni pochi casi di cordai ambulanti, che andavano a far la corda nelle cascine, lavorando la canapa prodotta dai contadini. Stavano fuori per periodi variabili, da pochi giorni fino a 2-3 mesi; si guadagnava qualcosa in più rispetto al lavoro sotto padrone e si aveva diritto al vitto. Ma la gran massa dei cordai lavorava fissa in paese.
Non si riesce a datare con sicurezza l’epoca di origine dell’industria della corda a Castelponzone, almeno attraverso testimonianze orali. È probabile che le ricerche d’archivio possano dare una risposta sicura, data la ricca documentazione disponibile. Gli informatori dicono che la corda si fa da due o tre secoli, che sono àni anòrum (anni e anni, secoli e secoli) che esistono i cordai. In realtà, dai ricordi effettivi, non si risale oltre il secolo scorso. I padri degli informatori anziani facevano i cordai, ma i nonni facevano altri mestieri, legati all’artigianato o ai servizi: i nonni di Andrea Buschini erano uno fruttivendolo, l’altro carrettiere (proprietario di un cavallo e di un birroccio, trasportava sale e tabacco da Casalmaggiore per la privativa del paese e faceva altri piccoli servizi); i nonni di Antonio Grazioli facevano uno il carrettiere, l’altro il sellaio; il nonno di Carlo Farina (cordaio artigiano) era artigiano, ma il bisnonno e gli antenati erano cap d’òm (capo degli uomini) nel castello del conte Ponzoni. Si dice in paese che l’industria della corda sia stata introdotta da Callisto Telò.
La domenica i cordai andavano all’osteria a giocare a carte. La grossa festa dei cordai era il lunedì pomeriggio, quando verso sera si smetteva di lavorare e si faceva la bréenta (che è propriamente la damigiana da cinquanta litri). Si dice che il lunedì si faceva festa, non si lavorava: in realtà si lavorava solo 10-11 ore e verso sera si sospendeva il lavoro e ci si radunava in due o tre posti, in particolare nello spazio chiamato Biasòon, per mangiare e bere. Si portava una damigiana di vino (ognuno contribuiva, e c’erano anche i padroni), ci si sedeva con la scodella di vino e il pan biscotto, si cantava e si prendeva la sbornia (la bàla).
La bréenta era la festa più sentita dai cordai, ed è tuttora vivissimo il ricordo delle cantate («cantavano come merli») e delle sbronze («c’erano dei bevitori formidabili»). Non è chiaro perché facessero festa il lunedì (giorno della consegna del lavoro, ma non giorno di paga). Anche i fabbricanti di mattoni di Quarry facevano festa il lunedì, cantavano e si ubriacavano di birra. Headington Quarry è un villaggio simile a Castelponzone: operai (mattonai, muratori) che lavoravano a cottimo in lavori stagionali (d’inverno dovevano fare debiti e d’estate facevano la mietitura per arrotondare la paga), legati agli zingari e ai fieranti, capaci di arrangiarsi (bracconieri), amanti della musica e delle feste.
2. Il gergo
I cordai di Castelponzone parlano il gergo. Questo registro linguistico è oggi complessivamente in disuso e la sua conoscenza pare limitata alle persone anziane, ma fino alla seconda guerra mondiale tutti i cordai parlavano sempre il gergo, sui sentieri durante la filatura come in famiglia: i genitori pretendevano che i bambini parlassero il gergo. Il lessico gergale non era limitato a particolari argomenti: in gergo si parlava di tutto. Il dialetto lo si parlava con gli «altri», con i non castellini. Pare che il gergo fosse conosciuto anche dai pochi contadini castellini, ma non dai contadini che venivano da fuori a lavorare a Castelponzone. Fuori dal paese nessuno capiva il gergo castellino, che secondo gli informatori era proprio in maniera specifica dei cordai («era la prerogativa dei cordai»).
Circa l’origine gli informatori pensano che sia stato preso dagli zingari, che intrattengono, come vedremo, stretti rapporti con Castelponzone; oppure che sia nato come difesa contro i soldati della guarnigione del castello dei conti Ponzoni, per non farsi capire.
Riporto 131 voci del gergo castellino, che comprendono le 91 voci raccolte da Amedea Sozzi. Alcune diffuse voci gergali sono risultate sconosciute alla principale informatrice, Nilia Grazioli: bel o vincenzo «ingenuo da imbrogliare», sacàgn «coltello» (ma c’è il termine, ormai dialettale, sacagnà «dare una botta, far male»), zaraffo «compare, complice», sonarengo o càmola «carabiniere, guardia», caldi «attenti, presto», calca «strada», calcante «vagabondo», sbertì «uccidere, morire», scaià «pagare».
L’impressione generale che si ricava da questo breve lessico è che si tratti di un gergo arcaico, con frequenti e puntuali riscontri con il furbesco del Quattrocento e del Cinquecento.
Il gergo di Castelponzone
3. Il mercato e gli zingari
A questo punto si pone il problema antropologico del legame tra l’uso del gergo e la situazione sociologica dei cordai. Il gergo è lo strumento linguistico storicamente proprio delle classi marginali; i gerganti sono definiti da due caratteristiche fondamentali: anzitutto dall’emarginazione economica e sociale, in secondo luogo, specificamente per la fase preindustriale, dall’instabilità, dal vagabondaggio.
La situazione di Castelponzone non sembra, per quanto si risalga nel tempo attraverso le fonti orali, corrispondere alle due caratteristiche richieste. I cordai non sono degli emarginati sotto il profilo economico, ma sono degli operai a domicilio. Né pare di poter supporre una riconversione da un precedente stato di cordai ambulanti, data la scarsità delle attestazioni; l’ipotesi è possibile e attraente, ma è contraddetta anche dalla mancanza di termini gergali riguardanti il lavoro del cordaio. Gli attrezzi hanno tutti nomi dialettali (masòol, spinàs, garbél, restéi, pàai, róoda, ecc.) e il cordaio è chiamato anch’esso con nomi dialettali (soprattutto curdéer, ma anche curdìin e filarìin) e non gergali, come pure la corda (còrda) e la canapa (càanëva).
La risposta va cercata nella storia del paese. Gli informatori conservano ancora un ricordo assai vivo – tramandato in famiglia – del castello del conte, dove si davano feste da ballo. Il paese è sorto attorno al «Castelletto», la rocca dei conti Ponzoni, dove amministrava la giustizia un rappresentante del conte e vi erano una guarnigione militare permanente e le prigioni; soprattutto vi si concentravano servizi e botteghe artigiane cui faceva riferimento l’ampia area circostante del casalasco fin da epoca medievale: macellai, fornai, fruttivendoli, droghieri, merciai, rivenditori di salumi, formaggi, cereali, vestiti, scarpe, cappelli, vetri, terraglie, chincaglierie e poi sarti, barbieri, carrettieri, calzolai, orefici, pellettieri, ricamatrici, falegnami, fabbri, sellai, maniscalchi. In paese c’erano anche ombrellai e stagnini (mestieri solitamente ambulanti); da fuori (dalla bergamasca) venivano solo gli spazzacamini. Non mancavano, naturalmente, le prostitute. Tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento c’è stato un fiorire di piccole imprese, di tipo semi-artigianale, per la fabbricazione di aceto, torrone, caramelle, mostarda, gassosa, sapone, ceste; c’erano inoltre fornaci, filande, caseifici.
Di particolare rilievo erano l’allevamento dei cavalli e le attività economiche legate al commercio del bestiame: il mercato e la fiera. Al mercato del giovedì si vendeva il bestiame (cavalli, buoi, maiali) e si facevano i prezzi dei cereali. Era uno dei maggiori mercati del cremonese, molto affollato di compratori e di bancarelle di merce varia.
Di grande importanza era la fiera di San Luca, che cominciava la terza domenica di ottobre e durava quindici giorni (talvolta anche più a lungo). Vi si vendeva bestiame, prodotti agricoli, merce varia (stoffe, maioliche, chincaglieria, ecc.). L’afflusso era enorme: non si riusciva nemmeno a camminare, veniva gente da tutte le provincie vicine. La seconda domenica di luglio c’era un’altra fiera di bestiame, di minore importanza, e quasi ogni mese un mercato di stoffe e biancheria tenuto da ambulanti di Bergamo e Como.
Il continuo afflusso di compratori per mercati e per le fiere ha prodotto una grande concentrazione di servizi: negozi, botteghe artigiane, alberghi, osterie, ritrovi, scuole, l’ufficio postale, servizi di trasporto di merci e di persone, servizi sanitari (un medico, un veterinario, un’ostetrica, due farmacie).
In paese il lavoro del cordaio viene tradizionalmente associato al fabbisogno di corda per i cavalli. I castellini avevano fama di ladri di cavalli:; i cavalli rubati venivano nascosti a Castelponzone (pare in gallerie sotterranee) e gli veniva «cambiato il colore» per renderli irriconoscibili. Ai cavalli è in parte anche legata una caratteristica straordinaria di Castelponzone: la presenza continua degli zingari e il loro legame con la popolazione.
Per la fiera di San Luca vengono numerosissime carovane di zingari (anche cinquanta), un tempo parolai (cioè calderash, ramai) e mercanti di cavalli. Tutto il paese intrattiene con loro ottimi rapporti e li aiuta in ogni modo.
Gli zingari fanno il mercato e un tempo andavano anche a suonare (con fisarmonica, organetto e chitarra) e a cantare canzoni zingare nelle osterie. Si fanno battezzare e seppellire a Castelponzone e prima di partire, dopo la fiera, fanno celebrare una messa per i defunti. In paese è ancora ricordato il grandioso funerale della «regina degli zingari», sepolta al cimitero, con più di cinquanta grandi auto «americane» («la meno cara era una mercedes») e interi carri di fiori, i cui petali sono stati sparsi per formare un tappeto dalla chiesa al cimitero. Alla fiera di San Luca accorrevano numerosissimi i fieranti: mentre nella piazza centrale c’era il mercato, nella piazza della chiesa (il piasóol) si radunavano «ciarlatani di prima categoria»: c’erano il luna-park con le giostre, il calcinculo, l’autopista, l’autoscontro, il tirassegno, vari banchetti; i cantastorie; il circo, con gli acrobati, i saltimbanchi e le bestie feroci. Venivano i circhi equestri dei Cristiani, dei Caròli, dei Biasini. Alcuni castellini lavoravano nel circo: Angelo Piccinelli, giocoliere, ha sposato Liana Orfei; il fratello lavorava con la bicicletta e il padre, Nino de Fòrsa, aveva ideato una giostra da sollevare con la gente sopra; c’era anche un’altra castellina che faceva l’acrobata.
A Castelponzone c’è sempre stato gusto per le feste, per i divertimenti. A carnevale si faceva una grande sfilata di carri allegorici, trainati da buoi, aperta da quattro cavalieri bardati, senza maschera ma con la faccia dipinta. I carri trattavano i fatti dell’anno passato, con canzoni e scenette; un concorso premiava il carro più bello. Nel salone si organizzavano tre veglioni mascherati di carnevale, uno la domenica prima, uno l’ultima domenica e un terzo l’ultimo giorno di carnevale, dove si ballava fino alle cinque del mattino. Si facevano rappresentazioni teatrali e si organizzavano balli, per cui veniva concessa una sala del castello. C’erano dei suonatori (violino, contrabbasso, mandolino, chitarra) che si tramandano il mestiere di padre in figlio (ora sono entrati nella banda, che a capodanno suona davanti alle case per raccogliere offerte). C’era una filodrammatica che recitava anche nei paesi vicini. Venivano accolti e ospitati gli attori girovaghi e venivano chiamati a dare rappresentazioni i marionettisti (i Ferrari), nel salone, e i burattinai (del mantovano), nelle scuole. Già dai tempi del muto fu installato, su un carrozzone, un cinematografo mobile.
4. Un paese di «dritti»
I dati raccolti ci autorizzano ad avanzare un’ipotesi interpretativa di carattere generale: Castelponzone è sorto e si è sviluppato come paese di «marginali», come paese dove si raccoglievano i «dritti», quelli che nel periodo di passaggio dall’età medievale all’età moderna non vivevano del lavoro della terra, ma si dedicavano ad altre svariate attività che si potrebbero definire di servizio (trafficanti, fieranti, piccoli artigiani al di fuori dalle corporazioni).
Nella geografia culturale italiana esistono i «paesi di ladri», paesi i cui abitanti vengono considerati, dai vicini, ladri e furfanti, paesi come Travagliato (in provincia di Brescia), S. Angelo Lodigiano (in provincia di Milano), Gambolò (in provincia di Pavia), Pozzolo Formigaro (in provincia di Alessandria), Vescovato (in provincia di Cremona) e, appunto Castelponzone. Come è da intendere questa fama, che si fissa puntualmente nei blasoni popolari? Occorre risalire alle condizioni socio-economiche feudali, quando l’agricoltura era l’attività economica fondamentale e l’unica riconosciuta lecita dalla Chiesa, che condannava, come è noto, con l’usura, il commercio, lo scambio, i traffici.
Né Castelponzone né gli altri «paesi di ladri» sono paesi di contadini: le attività economiche pratiche erano altre: i traffici (come a Pozzolo Formigaro, paese di confine, di dogana), il commercio ambulante (come a Vescovato, paese di stracciai), o lo spettacolo (come a Gambolò, paese di giostrai). In questo senso va intesa la qualifica di «ladri», cioè nel senso economico-morale medievale di esercenti di attività «illecite». Il mercante all’origine era un emarginato, un outsider, uno sradicato che cercava fortuna con attività nuove e rischiose, che andava contro l’organizzazione economica e politica del feudalesimo. C’è una comunanza originaria tra le varie attività marginali, e quindi tra i gruppi di emarginati, che in seguito si sono differenziate ed hanno avuto diversi sviluppi e diversa fortuna. Ci si arrangiava in vari modi, illegali o immorali: trafficando (mercanti); dando spettacolo sulle pubbliche piazze (cantastorie, fieranti, teatranti); rubando (ladri e truffatori); mendicando.
La «truffa» era il denominatore comune di questi emarginati, le cui attività originariamente spesso si confondevano nell’arte dell’inganno, dell’imbroglio, che si manifestava nella vendita della merce come nell’imbonimento del cantastorie, nei trucchi dei mendicanti come nelle truffe dei giocatori o nel borseggio dei ladri. Un’idea la si può ancora avere dagli odierni mercati di ambulanti, dove la vendita della merce più varia (fazzoletti, coperte, orologi, ecc.) significa capacità di «imbonire», di «rifilare il bidone», di far vedere o far capire una cosa per l’altra all’ingenuo acquirente.
Inganno, non violenza. Intelligenza, non forza. È il mondo dei furfanti, di coloro che impiegano per vivere la furfa, l’intelligenza, come spiega il dizionario gergale quattrocentesco di Teseo Pini. È il mondo dei dritti, dei furbi, tutti termini gergali che rinviano alle doti fondamentali di intelligenza, inventiva, fantasia di chi vuole vivere rifiutando il lavoro manuale e la fatica.
Estremamente indicativa è l’avversione dei vicini paesi contadini per Castelponzone. Significativo è il blasone popolare che suona Castelìin puarìin «castellini poverini»: si ricordi che nelle classificazioni medievali di teologi, filosofi e politici la categoria dei «poveri» raccoglieva gli emarginati, cioè quei gruppi (mendicanti, vagabondi, invalidi, operai, lavoranti artigiani, piccoli trafficanti) che erano privi di proprietà, che cioè non erano né nobili, né clero, né contadini, né artigiani. I castellini hanno fama di «zingari» (il gruppo marginale per eccellenza: zingari ed ebrei sono il simbolo dell’emarginazione); hanno fama di non aver voglia di lavorare, cioè di non fare il lavoro normale, di non essere contadini.
Assolutamente straordinario, ma del tutto comprensibile, data l’origine del paese, è il legame dei castellini con gli zingari, con i mendicanti, con i forestieri. I contadini temono e odiano gli irregolari, gli zingari, i mendicanti e i vagabondi (che vengono accolti sempre con riserve e con sospetto), i forestieri. Sono note le sanzioni delle comunità contadine con i forestieri, che rappresentavano una incomprensibile violazione dell’ordine feudale – basato sull’economia contadina – per cui ogni uomo deve restare stabilmente legato alla terra. Il forestiero è mal visto perché si sposta, perché non ha terra (altrimenti starebbe a coltivarla), perché infrange l’ordine. È il rappresentante di un mondo diverso, da tenere lontano, è il possibile esempio di un’alternativa da esorcizzare. I castellini invece accolgono a braccia aperte, con simpatia, i forestieri, perché il dritto è un forestiero, vive sulla novità, sul continuo cambio di paese, di gente, di rapporti: l’emarginato (come è stato sopra definito) non può limitarsi a pochi rapporti fissi e continuativi, come il contadino, che non lascia mai il paese; la molteplicità dei rapporti è condizione della sua vita, quindi o si sposta (ambulante, vagabondo), o attira la gente nei luoghi di mercato e di spettacolo.
Come gli zingari, anche i mendicanti erano ben visti e tornavano sempre: i castellini sentivano che erano «dei loro». Si andava anche a rubare per procurare cibo ai compaesani o ai forestieri (zingari, mendicanti) bisognosi, adottando quindi un comportamento antropologico estremamente significativo, che distingue i castellini dalla cultura contadina e li riconduce alla cultura degli emarginati. Anche il comune esprimeva questa «solidarietà di classe» inviando periodicamente sussidi ai poveri di altri paesi.
I castellini, come tutti i «dritti», che non lavorano con le mani ma con la testa, sono molto orgogliosi, si sentono superiori agli altri. Vengono chiamati puarét (poveri, poveracci) dai contadini, ma un cordaio, anche il più misero, non avrebbe mai accettato di fare il contadino. Il cordaio partecipava dell’ideologia dell’emarginato, amava la sua indipendenza; era sì sotto padrone, ma non aveva orari, né era legato alle esigenze e alle scadenze della terra: se un giorno non voleva lavorare poteva farlo, perché se quel giorno non guadagnava era solo affar suo. Indipendenza come assenza di legami (almeno espliciti). E orgoglio intellettuale: Castelponzone è «un paese di artigiani con la testa fina: sono venuti fuori mucchi di dottori, di preti, di avvocati, chi aveva appena la possibilità faceva studiare i figli»; nel paese dei «furbi» (a differenza dei paesi contadini) l’istruzione era apprezzata, non tanto, penso, come veicolo di promozione sociale, quanto come strumento di lavoro e fucina d’idee: con l’«istruzione» e vendendo «cultura» i ciarlatani sulle piazze lasciano a bocca aperta gli ingenui clienti. Si studiava e ci si informava di tutto, sia degli avvenimenti locali che di quelli nazionali.
L’evoluzione di Castelponzone può essere sinteticamente delineata in questi termini: nato come luogo di mercato, centro di traffici e di servizi, punto di raccolta degli emarginati, in epoca recente (probabilmente nell’Ottocento) ha vissuto un processo di proletarizzazione che ha reso disponibile forza-lavoro per la costituzione di un’industria della corda decentrata a domicilio, promossa da pochi proprietari terrieri acquirenti della canapa. Con la seconda guerra mondiale la produzione della corda è entrata in crisi, il mercato e la fiera hanno vista grandemente ridotta la loro importanza, pertanto i castellini hanno progressivamente abbandonato il paese per andare a lavorare come operai in fabbrica, specialmente a Milano. In questi anni si è definitivamente concluso il lungo processo di trasformazione da «dritti» a proletari che è forse alla base della formazione del nucleo originario della classe operaia.
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Questo saggio va considerato come primo contributo di un lavoro più ampio su Castelponzone che mi riprometto di portare a termine, in particolare attraverso l’analisi della ricca documentazione d’archivio. La documentazione orale è tratta da interviste fatte il 14-10-1978 (da G. Sanga e I. Sordi), il 21-10-1978 (da G. Sanga e I. Sordi), il 2-1-1979 (da G. Sanga), il 20-1-1979 (da G. Sanga e I. Sordi) e il 18-3-1979 (da G. Sanga) a Carlo Farina (anni 70 circa, cordaio artigiano), Quinto Farina (anni 60 circa, cordaio artigiano) Rosimbo Colombi (anni 50 circa, cordaio artigiano), Andrea Buschini (anni 85, ex cordaio operaio), Antonio Grazioli (anni 73, ex cordaio operaio) e Nilia Grazioli (anni 50 circa, figlia di Antonio), che è stata particolarmente utile per il gergo. Per la parte storica mi sono servito della tesi di Amedea Sozzi, di cui sono pubblicati più oltre ampi stralci.